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20120503

lfo | frequencies

Ristampato qualche mese fa, il primo disco degli LFO è uscito originariamente nel 1991. Io a quell'epoca avevo otto anni. Di cose ne sono successe giusto un paio, almeno per me è così, ma credo che anche voi possiate dire lo stesso.
Pure Frequencies se potesse parlare - e in qualche modo lo fa, ma traduco io per voi - ne ha viste di cotte e di crude durante lo scavalcamento del millennio. Di sicuro è cresciuto il suo valore nel tempo. Non che quando uscì non se lo filò nessuno, ben intesi. Però i suoi meriti sono stati riconosciuti maggiormente negli ultimi anni. Solamente i coetanei, o quelli che vennero subito dopo di lui, si accorsero immediatamente dell'importanza che questi pezzi ricoprivano. 
Sinceramente non penso che sia quello che da molti viene definito come "capolavoro", ma ritengo che la sua forza sia più intrinseca, una rivoluzione in qualche modo silenziosa, che ha influenzato tutta una generazione di produttori a seguire. Il fatto che fosse uno dei primi dischi prodotti dalla Warp è un indizio che bisogna considerare: storicamente ha tracciato un sentiero per tutta l'elettronica più portata all'ascolto che al ballo, uscendo per un'etichetta che su queste prime produzioni ha creato uno stile unico.
Un approccio divertito, non così cerebrale come sarebbe stato quello degli Autechre, non così acido e schizzato come quello di Aphex Twin, e nemmeno così visionario come Black Dog Productions, ma un misto di tutte queste cose. Il disco è in effetti un discreto esempio di versatilità, spaziando dal brano più rilassato e giocoso a quello più duro, muovendosi tra techno, pop, sperimentazioni e un po' di house.
Io nel 1991 ascoltavo le sigle dei cartoni animati. Ma grazie agli LFO posso provare a immaginare la creatività e le proposte che avrebbero stimolato un decennio di grandi prove musicali.

20120427

dirty three | whatever you love, you are

Nella mia mente i Dirty Three sono sempre stati una versione più rock, strumentale e meno blues dei Morphine. Lo so, ho dei problemi, non lo nego. Credo perchè entrambe le formazioni erano un trio anomalo, molto ai margini della scena musicale e sempre un po' dimenticati. Il resto credo di mettercelo io, come quelli che confondono De Niro con Pacino. Non c'è una motivazione vera e propria, se non la confusione mentale.
Non ho ascoltato altri dischi dei Dirty Three, e non credo che lo farò. O almeno, per il momento è così.
Troppo alta l'idea che mi sono fatto di questo gruppo per rovinarli con altri album. Per me la band australiana è questo disco, e nessun'altro. Ne hanno fatto di migliori? Di più belli? Non voglio saperlo.
Tra l'altro non credo possano esistere titoli più belli di questi: Some summers they drop like flys, I really should've gone out last night, I offered it up to the stars and the night sky. 
Senza dimenticare il titolo! Ah, che titolo!
E vogliamo parlare della copertina? Un dipinto che racconta perfettamente la musica che c'è dentro. 
Quindi, se nella realtà non possiamo evitare le cose, belle o brutte che siano, io qui mi rifiuto di saperne di più, mi accontento e passo avanti. 

No dai, sto scherzando. Adesso mi procuro gli altri dischi e vedo di farmeli piacere almeno la metà di questo. Magari mi piacciono di più. Prima però mi riascolto i Morphine, sai mai che ho ancora quel dubbio lì.

20120225

burial | untrue

Ci sono dei dischi che ti lasciano sempre una sensazione di incompiutezza. Non sono dei mezzi passi falsi, anzi, ma sei convinto di non averli mai capiti del tutto, nonostante le ripetute e piacevoli frequentazioni. Non manca qualcosa all'album, manca qualcosa a te. Sono quei lavori che probabilmente garantiscono una continua capacità di esplorazione, a ogni nuovo ascolto mostrano qualcosa che prima pensavi di non aver sentito, e per questo  sgretolano le certezze raggiunte fino a quel momento. Pensi di aver fatto un passo avanti, e invece hai perso la strada che ti ha portato fino a lì. E ti sembra di non aver mai sentito quei brani.
Personalmente penso che questo avvenga sia perchè alcuni suoni non garantiscono punti di riferimento e lavorano sulla stratificazione, nascondendo e mostrando, come un illusionista; sia perchè qualcosa in noi è cambiato, o sta per cambiare, e modifica in qualche modo il nostro ricordo-non-ricordo di quello che abbiamo sentito.
E come non parlare di memoria, in un disco nel quale si sentono dei fantasmi? Qualcosa che pensiamo di aver visto, ma di cui non siamo sicuri; qualcosa che esisteva e adesso non più, o meglio, esiste in un'altra forma. Non hai compreso, non hai afferrato. Untrue, secondo disco di Burial, è lì, esiste, lo vedi e non lo vedi, lo ascolti e non lo ascolti, pensi di averlo capito e invece ti stai perdendo dentro.
Inafferabile lui. Incompiuto tu.

20120204

my bloody valentine | isn't anything

E come avevo fatto per il post riguardante il disco di Dj Shadow, anche in questo caso trovo un titolo di un brano per descrivere tutto il resto. Lo so che è una pratica appunto già ripetuta, ma avete presente la musica dei My Bloody Valentine?
Tanto ruvida, rumorosa e sgraziata fuori, quanto delicata, fragile e accogliente dentro. Non penso che sia un caso che la band abbia assegnato l'incipit del loro primo disco a un pezzo che si chiama Soft as snow (but warm inside), dove la neve sta a definire il rumore bianco e freddo delle chitarre, contrapposto al calore interno delle melodie. È proprio questa contrapposizione che sta alla base del loro suono. Una cosa tipo: siamo tanto tormentati che vogliamo aggredirti con un bel wall of sound in modo che tu, ascoltatore, rimani un po' stordito, ma sotto sotto, se ascolti bene, ci siamo anche noi, ti va? Poi sta a voi decidere se vi va, eh, però il bello dei MBV è proprio questo. Se questo non fa per voi, passate avanti, vi capisco. Non sempre si ha voglia di stare nell'occhio del ciclone, ma ogni tanto aiuta a portare un po' di scompiglio, e magari le vostre idee ne hanno bisogno. Loro ci sono, in carne e ossa, ma sono talmente timidi che si nascondono dietro le distorsioni: prima il caos e poi tutto il resto. Però poi scavando scopri che tutto il resto sono melodie lineari e etere, sospese all'interno di una nuvola di polvere e adolescenza, Come in una bufera di neve, ma tenendo per mano qualcuno.

Balthazar Smth

20111220

dj shadow | endtroducing

Midnight in a perfect world. E molto probabilmente vado a citare il pezzo più conosciuto, e di conseguenza uno dei più nominati per parlare di questo album di Dj Shadow. C'è sicuramente della banalità in questo, ma mi piace pensare che questo essere scontato, sia in fondo un modo per definire e individuare nel migliore dei modi il suono che c'è all'interno di questo album. La necessità di chiarezza e di definire un disco molto chiacchierato, che ha sicuramente rivoluzionato la musica, o perlomeno l'ha resa maggiormente interessante in quanto fortemente creativa.
Quel brano è perfetto fin dal titolo, sembra che solo leggendolo, uno riesca già a immaginarsi l'atmosfera che si troverà a incontrare in quasi cinque minuti di musica: suggestiva, seducente, e appunto, perfetta. Quando un titolo riesce a raccontare così tanto di una traccia e la fantasia corre così spedita, quello che si andrà a ascoltare non può che essere la rappresentazione in musica di quanto promesso: la mezzanotte in un mondo perfetto. La magia e la voglia di immergersi in una notte nella quale tutto è vivo eppure in silenzio, un momento che sembra essere l'ideale punto di raccordo tra due date, un attimo di perfezione che solamente il buio dell'ora tarda può aiutare a svelare per poi scomparire. È così anche la musica di Dj Shadow: un immergersi, un tornare a galla continuo, tra campionamenti e mondi che, così come il passaggio tra un giorno e l'altro, si incontrano per un secondo per poi dirsi addio.

Balthazar Smith

20111124

ray charles | what'd i say

Quando ero piccolo ho visto una volta Ray Charles in televisione. La cosa che mi colpì non era tanto la musica, ma il fatto che muovesse la testa in quel modo.
Onestamente non penso che a quell'epoca io sapessi che fosse cieco, e gli occhiali neri mi sembravano solamente un modo per affermare il proprio stile. In fondo, a ripensarci, la mia idea non era così bizzarra, avere gli occhiali scuri tutto il tempo era il suo stile, un tratto distintivo così come essere cieco. Sembrava quasi essere una scelta questa combinazione di fattori, e non una decisione imposta dalla sfortuna.
Una sfortuna che lo ha accompagnato fin da quando era bambino, ma che probabilmente da una parte gli ha permesso di distinguersi iconograficamente all'interno della scena musicale e non solo, e che però dall'altra ha un po' reso non vedenti - o meglio, non udenti - molti ascoltatori, non sempre capaci nel corso dei decenni di dare a The Genius quello che gli spettava. Ray Charles il musicista nero e cieco, si dice. Mentre forse a volte basterebbe dire: Ray Charles, uno dei geni musicali del novecento. Tanto semplice, fresca e immediata la sua musica, quanto in realtà complessa, innovativa, multilingue, capace di parlare il soul, il jazz, il blues e pure il country. Composizioni orecchiabili, vicine al cuore dell'ascoltatore.
What'd I Say è uno dei primi dischi che ha realizzato, e forse quello che segna il cambiamento di passo verso la celebrità. Un disco finalmente maturo, senza riempitivi, sofisticato e allo stesso tempo immediato. Lo spessore nascosto all'interno di una piuma.

Balthazar Smith

20111022

public enemy | yo! bum rush the show

A volte saper parlare non serve, conta più quello che si ha da dire. Altre volte invece la cosa importante è come lo si dice, non importa il contenuto. Nel caso dei Public Enemy, la differenza la fa l'urgenza, che si manifesta sia nelle liriche sia nell'approccio musicale: potente. Un suono che riempie ogni vuoto e fa si che non ci sia tempo per pensare, ma solamente per agire, sferrando un colpo preciso alle orecchie e alla coscienza dell'ascoltatore.
Può sembrare un caos, un impeto che come tale non è controllato, un frullato di suoni e di pensieri buttati lì, soprattutto ai primi ascolti, nei quali la frenesia sembra prendere il sopravvento.
Con il passare del tempo si delinea un piano preciso, concreto, che da quella urgenza originaria fa scaturire uno stile che con il tempo si è delineato sempre di più come unico: solo dal caos può nascere qualcosa di fresco, che mette a soqquadro una nazione. Già in questo primo disco i campionamenti raggiungono un numero elevato di sfacettature, di angoli e pieghe, e nonostante la loro eterogeneità si dimostrano in fin dei conti coerenti, fedeli a quella spinta propulsiva iniziale.
Un soul, nell'accezione letterale del termine, da strada, con le scarpe da ginnastica e il bomber, gli occhiali da sole e il berretto, l'impegno nel cuore e nella testa. Una spaccatura vera e propria nella società americana, una rivoluzione che è partita dalla fine degli anni sessanta ed è arrivata fino ai Public Enemy: un nemico pubblico di un sistema che sta per essere messo in crisi.
Funk, poesia, punk.
Chitarre, sirene, battiti.
Distorsioni, riverberi, politica.

Balthazar Smith


| l i n k |

20111011

p e n t a g l e | basket of light

Un cesto di luce. Un contenitore, scavato, scuro, con all'interno una luce che si fa spazio per sprigionarsi verso l'esterno. Un segnale, forse, che qualcosa può migliorare. O magari che, anche dentro le cose meno piacevoli, può nascondersi qualcosa di positivo. Le interpretazioni possono essere molte. 
Quello che importa è riconoscere, nei brani che costituiscono il terzo album della band inglese, una fonte di energia costante, una luminosità a volte più malinconica, altre volte più frizzante, ma sempre presente. L'immaginario, ben raccontato dalle atmosfere rurali e bucoliche delle composizioni, è quello del paesaggio inglese, delle sue campagne e dei cieli plumbei. Collocato in un periodo storico che realmente è quello a cavallo tra anni sessanta e settanta, ma a livello concettuale è debitore alla musica folk anglosassone: sono presenti infatti ben cinque arrangimenti di traditional, mischiati con moderni sapori jazz, blues e rock. 
Cos'è quindi questo disco, e chi sono i Pentagle? Probabilmente sono un tentativo di riscoprire le proprie origini in un'epoca di rottura, nella quale vengono buttate via tutte le cose necessariamente nuove, nella quale ci si accorge che bisogna ritornare ad avere un rapporto più umano e di condivisione. Da quelle rivoluzioni, più o meno riuscite, la musica ne esce a testa alta, riuscendo a esprimersi in tutta la sua vitalità, in diverse direzioni: in questo caso, ha successo anche quando viene riproposta con una nuova, rispettosa, veste. Un guizzo, un momento. Da afferrare.

Love is a basket of light; grasp it so tight.

Balthazar Smith

20111002

b o n n i e p r i n c e b i l l y | i see a darkness

Ad un certo punto, quello che vuoi, è lasciarti andare. Vuoi sentire che il tuo corpo, immobile, venga trasportato da qualcuno o qualcosa. Può sembrare un modo per risultare passivi, in verità è una decisione presa consciamente, tanto quanto una decisione opposta a quella. Non c'è motivo di trattenere, di controllare, di misurare e di capire, quello che conta è provare a sentire qualcosa senza essere noi stessi a guidare quella cosa, lasciando che sia essa a farlo. E tutto scorre, come quando sei ubriaco e vedi tutto passare più velocemente, senza riuscire a afferarlo perchè non ne hai la forza o la reattività.
È con questa idea che vorrei affrontare ogni disco che ascolto, senza pormi troppe domande e lasciando fluire tutto quello che accade. Credo che sia anche l'atteggiamento che Bonnie 'Prince' Billy lascia trasparire in alcuni momenti di questo album. Facendosi travolgere dai suoni, dalle melodie, immediate, e dalle parole, che escono di getto, senza alcuna paura. Affrontando, più o meno consapevolmente, come in uno spazio tra il sonno e la veglia, tra il troppo alcol e la sobrietà, quello che è accaduto nella propria vita. Lavorando sulle sfumature, sulle tonalità che non sono nè nero nè bianco, ma un pò di entrambi i colori. Un pò morti e un pò vivi, è questo che ci permette di rischiare, di provare, non è mai nato nulla di buono o di nuovo dalla certezza. Guardando dentro quella oscurità, ci possiamo rendere conto di quello che siamo e di quello che possiamo diventare. Con la testa che si sporge verso il baratro, pronti a cadere, ma senza la certezza di volerlo fare. L'unico modo per arrivare a quel punto è spingersi fino a là. Non serve molto: un pò di coraggio o di disperazione, una voce immersa in qualche tunnel desolato, e una chitarra. Con la sedia al confine con il precipizio, a volte si ragiona meglio.

Balthazar Smith

20110920

p o r t i s h e a d | portishead

Dovresti. Perchè se non lo hai fatto, forse è arrivato il momento di iniziare a prendere in considerazione la cosa. Sono stupito, che tu non li abbia ancora sentiti, perchè sono sempre stati lì, tra le cose che avrei voluto farti ascoltare, ma che forse ho snobbato, pensando che fossero troppo vecchi, già sentiti, non importanti e chissà quali altre stupidaggini.
Forse, ed è questa la reale motivazione in fondo, ho pensato che fossero troppo ossessivi, malati e malinconici per farli ascoltare a qualcuno. Qualcuno che non fossi io, è chiaro. Perchè io, dentro quei fiati d'annata, quella grana spessa e rovinata, quel suono caldo ma allo stesso tempo un pò freddo, mi ci sono sempre ritrovato. Una certa fascinazione per quel qualcosa di sporco, di vecchio e quindi di malconcio, di storto e di malato, di moderno che si riappropria di antichi umori. Di fumo e nebbia, ma soprattutto di una voce che non lascia spazio a nessuna dimensione che non sia quella intima, personale, notturna e, nondimeno, solitaria.
E' per questo che io non ho mai voluto farli sentire a nessuno che non avesse le mie impronte digitali, quasi vergognandomi di apprezzare queste spirali che svelano in me una certa malattia, che non mi va di rivelare. Una negazione continua. Un negarsi in maniera silenziosa alla vita. Questo sono i Portishead. Per me. Ma non per te.

Balthazar Smith

| l i n k |

20110913

n i c o | the marble index

E' vero. Quando qualcuno ti racconta la propria storia, soprattutto i momenti peggiori, sta facendo semplicemente una cosa: un avvertimento. Qui è dove non voglio tornare, questo è quello che non voglio doverti raccontare di nuovo in futuro.
The Marble Index è il secondo disco da solista di Nico, dopo l'esperienza con i Velvet Underground. È un breve ma intenso peregrinare, in discesa, nelle profondità di questa artista, sempre più giù, guidati da una luce che via via diventa sempre più fioca, fino a farci cercare il giusto percorso con le braccia tese a anticipare qualsiasi ostacolo.
Compagni di questo viaggio sono la voce della musicista tedesca, che si pone come un ricordo, pronto a mettere in guardia l'ascoltatore; l'harmonium suonato da lei stessa, un drone al quale aggrapparsi nei momenti più difficili, nei quali si rischia di cadere, e infine, la viola di John Cale, seducente e altera che si manifesta come un miraggio alla fine del cammino. Qui però, non ci sono vie d'uscita, si va fino in fondo, affrontando l'inverno e la notte, nelle accezioni peggiori. The Marble Index è bucolico nel suo utilizzare strumenti e sapori ancestrali, ma non è per nulla rassicurante come potrebbe esserlo un'interpretazione e un suono folk più classico. Nico prende in prestito un pò di quella vita malsana e urbana che con il vecchio gruppo aveva raccontato, e la sposta in un tempo e in uno spazio che esistono solo nella propria esperienza personale.

Balthazar Smith

| l i n k |

20110902

f e l a k u t i | live! (with ginger baker)

A mio modo di vedere un disco dal vivo deve avere principalmente una caratteristica: deve infastidirti. Mi spiego meglio. Quando lo ascolti devi pensare per tutto il tempo a quanto sfortunato sei, a quanto a volte il tempo e lo spazio siano concetti talmente rigidi da nausearti, da obbligarti a pensare che per forza sei nato nell'epoca e nel luogo sbagliato. 
Se allora pensi questo, vuol dire che hai per le mani un grande disco, o meglio, una grande performance. Una di quelle nelle quali se ci sei gioisci per tutta la vita, ma se non ci sei stato rosichi e, appunto, provi un forte senso di fastidio. 
È come se il disco ti dicesse: ascolta qui, lo so che non sei potuto venire a vederci, magari non potevi perchè avevi un altro impegno, o forse, purtroppo per te, non eri ancora nato, e quindi pazienza, bè ho pensato che registrare l'evento potesse farti piacere, ti va?
Io ovviamente ho risposto mi va, e quando ho sentito per la prima volta questo live del 1971 ho provato un forte senso di fastidio. I fiati, il ritmo, le chitarre ritmiche, l'energia dell'esecuzione, le introduzioni di Fela Kuti, sono i motivi principali che mi hanno fatto provare questa sensazione, l'idea di trovarmi nelle orecchie un concerto strepitoso pieno di calore e di passione, che nonostante la lunghezza dei brani si mantiene fresco e piacevole da ascoltare. 
Pazienza se mi infastidisco, ogni volta mi ritrovo a imitare gli urli di Fela Kuti, a agitare la testa a ogni passaggio delle trombe, a battere il piede inseguendo la batteria di Ginger Baker, a recitare a memoria le spiegazioni dei titoli all'inizio di ogni brano. 
Non c'ero, ma è come se ci fossi stato. Forse questa è la seconda caratteristica che deve avere un disco dal vivo.

Balthazar Smith

20110826

e c h o a n d t h e b u n n y m e n | crocodiles

Le copertine degli Echo and the Bunnymen hanno tutte un filo rosso che le accomuna: il gruppo è sempre immerso nella natura. Sono foto suggestive, che puntano tutto sulla luce e sulla bellezza degli scenari. Non c'è nulla di speciale, di particolarmente artefatto, se non un minimo di illuminazione come in questa copertina. E' tutto ben mostrato, senza trucchi, immediato e semplice come solo un paesaggio di alberi può essere. C'è una sorta di punto di incontro tra la cupezza degli abbigliamenti e dei tagli di capelli dei membri della band, e il mistero selvaggio della natura. Qualcosa che in qualche modo è difficile da capire, che nasconde un'ambiguità vecchia come la nascita del nostro pianeta. Penso che sia in qualche modo inevitabile, ogni volta che si fa una foto a un paesaggio incontaminato, avere la sensazione di poter catturare qualcosa che non si può. La tecnologia ci fa sentire potenti, come se potessimo controllare e portare con noi quello che abbiamo visto.
Mentre scatti sei sicuro di avere quella cosa, di avere quello che hai visto nell'obiettivo, ma in realtà non hai in mano niente.
La musica degli Echo and the Bunnymen è come una fotografia fatta alla natura: sono inafferabili, sembrano semplici ma non lo sono, si mascherano e poi tornano se stessi, sono un rebus che colpisce, spiazza e spaventa. In mezzo ai rami, sempre.

Balthazar Smith

| l i n k |

20110816

r a c h e l 's | the sea and the bells

Un tentativo di far annegare l'ascoltatore. Per questo credo che se non ci sia la volontà di sprofondare negli abissi, lasciandosi trasportare dalla corrente, non sia possibile apprezzare quello che accade in questo disco.
È anche vero che se si riesce a fare questo, non si può realmente riemergere per raccontare quello che si ha ascoltato: perchè non è semplice e forse non è nemmeno giusto che lo sia. All'incirca come un segreto che è meglio custodire con se stessi, senza farne parola con nessuno, un'esperienza intima, talmente personale da diventare un'esperienza a tutti gli effetti. Qui di parole non se ne sentono, e non se ne avverte la mancanza. 
In sostituzione ci sono lamenti, sussurri, mormorii e le agitazioni del sottomare, che non si fanno sentire ma ci sono. Il mare non è in tempesta finchè non si mostra come tale, non ha nessuna remora o gentilezza.
In una formazione nella quale formalmente gli strumenti sono classici ma l'attitudine è quella del rock più strumentale, nella quale l'attesa trova la stessa importanza del rumore e dell'apertura melodica, non c'è nulla da canticchiare o da ascoltare distrattamente. Sarebbe come pretendere di controllare il flusso del mare, tentando di rendere razionale qualcosa che non lo può esserlo. I Rachel's, che sono un gruppo legato al concetto e al bilanciamento cerebrale delle varie parti, sembrano assecondare questa corrente, lasciandosi anch'essi travolgere da quello che loro stessi hanno tentato di impostare: sperimentazioni, distorsioni, melodie, spigolosità e ondeggiamenti ambient. Tutto questo forma la cifra stilistica che li contraddistingue e che li avvicina all'ispirazione poetica dalla quale sono partiti: The sea and the bells di Pablo Neruda.

Balthazar Smith

20090712

TALK TALK: SPIRIT OF EDEN (S 24)

Non esistono dischi che ti cambiano la vita. Esistono solo dischi che la migliorano. E questo è uno di quelli. Quando l'ho comperato ho avuto la stessa sensazione che ha un pirata quando apre un forziere per il quale ha viaggiato per mari e per monti (no, aspetta, per monti no). I riflessi dell'oro e delle pietre, dei diamanti, delle monete che luccicano e gli illuminano il viso mentre capisce che cos'ha di fronte; e togliendosi la benda dall'occhio si rende conto che finalmente può vedere con entrambi. Questo disco apre confini, abbatte muri, si presenta all'orizzonte senza timore, e così alle nostre orecchie: silenzioso, in punta di pianoforte, fino a farsi reale, presente. Il paradiso, state tranquilli, non lo vedremo mai, quindi accontentavi di questo disco, perchè è la cosa alla quale si avvicina di più.

Balthazar Smith

| l i n k |