Diciotto musicisti, diciotto strumenti, diciotto suoni. Un caos insomma. Se esiste un titolo di un disco che mi crea confusione, pur nella sua letterale linearità, è proprio questo. Mi immagino tutti gli strumentisti pronti a gareggiare per un posto d'onore, a lottare per quel poco di spazio che c'è. In realtà qui di spazio ce n'è molto, i margini tra uno strumento e l'altro sono distinti, riesci a scorgerli tutti, sono ben tracciati, con percorsi che sfumano tra di loro, si incontrano e si separano di nuovo. Dove termina un suono ne inizia un altro, creando un'ariosità, una capacità di ampliare le dinamiche all'interno delle strutture, che progressivamente si svela come ripetizione ma anche come evoluzione. Diciotto è il numero che genera tutto questo, ma solamente uno è il fattore che domina all'interno di tutto questo, e quello che alla fine viene raggiunto è un suono unico, composto da pianoforti (quattro), violoncello, violino, clarinetti (due), marimba (tre), xylofoni (due), metallofono e voci femminili (quattro). Il totale è oggettivo, il risultato è singolare in tutti i sensi. I ritmi sono quelli dell'africani, una testimonianza delle radici della musica e di noi tutti, ed è per questo che tutto qui è vitale e luminoso, spaziato all'interno dei nostri movimenti interiori come esteriori, un disco che sembra generato nella notte dei tempi, e che in qualche modo ci riporta indietro alla nascita di ogni cosa.
Balthazar Smith
-----> L I N K <-----
Balthazar Smith
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